Gloria di cenere- 3 maggio - 3 giugno 2007
Proseguendo nel programma espositivo avviato con la mostra “Essenziale all’arte” , in cui sono state avvicinate tra loro negli ambienti rinnovati della Galleria De’ Foscherari le opere di Pier Paolo Calzolari, Luciano Fabro e Claudio Parmiggiani, giovedi 3 maggio si aprirà al pubblico una mostra personale di Claudio Parmiggiani. Chiamato a un nuovo impegno, l’artista ha concepito una triade emblematica di lavori in cui ciascuna opera è traguardo all’altra, sia in senso estetico che in senso spaziale. Il ‘piano’ che si viene a determinare è quello di una tensione etico-estetica quasi palpabile, poiché ogni opera è densissima fonte di messaggi che sembrano voler valicare la sfera puramente simbolica per divenire morfologia di un pensiero ‘resistente’. Con esso, attraverso le sue opere Parmiggiani affronta, con risolutezza e gradi crescenti di vigore, invisibili ma reali insidie presenti nella distrazione, nell’indifferenza e nel cinismo odierno. La costruzione di ogni forma richiama l’artista a una gravità oggettiva che distingue le proprie immagini da quelle dequalificate di significato e ‘scaricate’ in modo alluvionale davanti alla percezione individuale da innumerevoli fonti produttive dell’inquinamento mediatico. In occasione della mostra Gloria di ceneredi Claudio Parmiggiani sarà edito un catalogo pubblicato dall’editore Allemandi di Torino, con scritti di Pier Giovanni Castagnoli, Bruno Corà, Angelo Guglielmi.
In silenzio a voce alta
Desidero dire alcune parole che solo indirettamente parlano di questa opera poiché un’opera è sempre un viaggio verso il tutto e verso il nulla e nessuna parola è in grado di svelare quel mistero che è la sua vita profonda e il suo infinito.
Posso solo parlare della sua forma visibile,premettendo che un’opera non è mai un gesto di buona educazione, né tranquillizzante, né ottimista ma un gesto duro, radicale, estremo. È un’opera, questa, fatta di cenere, di fumo, di aria, di luce, di fuoco. Un’opera immateriale, fatta di silenzio e con la materia del tempo. Un’opera fatta di parole bruciate. Delicata come le ali di una farfalla. Farfalla in greco si traduce psyché e psyché significa anche anima. Tecnicamente, si è trattato di costruire per distruggere e distruggere per costruire una nuova realtà. Un’allegoria, una metafora, un percorso da una dimensione fisica ad una dimensione metafisica. Osservare il tempo che lascia la sua impronta, che disegna con la sua sperduta immaginazione. Lavorare con tutto ciò che si disperde, che è impalpabile, imprendibile, con quello che c’è di più duraturo: l’ombra, la cenere, la polvere. Vorrei anche sottolineare, nell’opera che qui ho presentato, l’importanza che ha per me lo spazio. Non solo lo spazio dell’opera ma l’opera dello spazio. La realtà di un’opera comincia al di là di ciò che di essa è visibile. Quale spazio, quale senso cerca oggi un’opera? Che cosa significa esporre? Che cosa significa fare arte oggi?
Rivolgo queste domande perché porsi il problema dello spazio dell’opera significa porsi non solo il problema di uno spazio formale, estetico ma anche e soprattutto quello di uno spazio etico, politico dentro il quale l’opera andrà a situarsi. L’opera, come l’artista, è spesso prigioniera di un mondo che non le è amico e in questo mondo lotta per difendere non solo uno spazio materiale ma uno spazio spirituale, quell’attimo assoluto che realizza la sua libertà. Provengo da un Paese, da una formazione, da un’esperienza artistica e da una forma di società diverse dalla vostra. Quello che nelle mie parole potrà sembrare distante, forse paradossale, estraneo alla vostra esperienza, oppure un limite, presuppone questa consapevolezza. Parlo soprattutto di ciò che io vivo.
Ho voluto, nel titolo di questa opera, dare un particolare accento alla parola silenzio. Quando parlo di silenzio non intendo il silenzio della mia voce, un silenzio rinunciatario, ma un silenzio dentro la forma della mia opera. Parlo del silenzio come di una materia. Considero il silenzio una presenza ed un gesto oggi necessari all’interno di un discorso sull’arte e, anche se potrà sembrare un paradosso, un modo di assumere una posizione. Il rifiuto e una reazione a quel linguaggio inaccettabile che fa del clamore, del gratuito e della superficialità il suo principale obbiettivo artistico. Considero quindi il silenzio un modo di rendere imprendibile il pensiero, un segno di fermezza, poiché silenzio non significa solo silenzio ma significa anche non concedersi e non concedere nulla. C’è l’esigenza che l’arte di oggi, in gran parte asservita alla moda, esca da molti compromessi e ambiguità, così come, invece di attardarci attorno ad obsolete e stanche formule stilistiche, dovremmo prendere innanzitutto coscienza di una nostra globale condizione tragica e sentirci piuttosto come condannati al rogo che chiamano attraverso le fiamme.
Questo asservimento credo sia principalmente alla base della demoralizzazione attuale e riguarda, appunto, una forma di cultura che si sottrae al preciso dovere di essere tale. Mai come ora si è parlato tanto di cultura ma di una cultura che non coincide con la vita e che è fatta per dettare legge alla vita. Invece di identificarci con disinvoltura in quella che si potrebbe definire ‘cultura dell’ottimismo’, dovremmo forse riflettere e osservare, ad esempio, che il mondo ha fame e che non si preoccupa di questa sedicente cultura. La cosa più urgente non mi sembra l’ubriacarsi in una cultura dell’effimero la cui esistenza, per usare le parole di Antonin Artaud, non ha mai salvato nessuno dall’ansia di vivere meglio o dall’angoscia della fame, ma estrarre da ciò che crediamo sia davvero e profondamente la cultura o l’arte, idee la cui intensità e forza siano pari a quella della fame. Per un artista l’arte, quando è vissuta con verità, è l’unica, anche se silenziosa, forma di esistenza e di resistenza. Per la società, per quella cultura dell’effimero di cui parlavo e nella quale ci rifiutiamo di riconoscerci, poesia e arte, quella poesia e quell’arte che amiamo, che difendiamo e attraverso le quali ci opponiamo, sono parole spesso dimenticate. Sono problematiche, pongono domande, non danno risposte, offrono solo dubbi. Per chi ha una responsabilità politica e quindi etica, tenerne conto, difenderle come un dovere e sentirle come un bene, significa accettare un rischio, nella consapevolezza che un bene spirituale è, in sé, una ricchezza, che cultura è essenza di benessere. Noi abbiamo bisogno di questa arte. C’è un’eredità spirituale che non deve essere dissipata. Un dovere e una conseguente responsabilità che gli artisti devono assumersi. Non smarrire il senso profondo del loro passato artistico, storico e morale. L’arte deve ritornare ad essere arte, tornare a parlare al cuore dell’uomo.
Nell’infanzia del tempo l’arte fu preghiera. Poco è rimasto di quella infinita bellezza. Ora non siamo più capaci nemmeno di pregare. Come ciechi camminiamo tra le rovine. Abbiamo bisogno di ricostruire.
Claudio Parmiggiani
Testo letto da Claudio Parmiggiani al Museo Nacional de Bellas Artes, La Habana, in occasione della inaugurazione della sua mostra Silencio a voz alta, 24 marzo - 4 giugno 2006.