ARTE POVERA | 24 FEBBRAIO - 15 MARZO 1968

“Alla convergenza tra arte ricca e vita, l'arte povera, un esserci teso all'identificazione, cosciente, reale=reale, azione = azione, pensiero=pensiero, evento = evento, un'arte che predilige l'essenzialità informazionale, il comporre teso a spogliare l'immagine della sua ambiguità e della convenzione che ha fatto dell'immagine la negazione di un concetto. Concetto che riemerge ora quale « deus ex machina » dinnanzi alla macroscopica valorizzazione della rappresentazione e del modus videndi, per una affermazione della civiltà dell'intelletto.”

Così Germano Celant presenta la storica mostra “Arte Povera” tenutasi  presso la Galleria de’ Foscherari nel 1968 (24 febbraio - 15 marzo), con le opere di Zorio, Boetti, Pascoli, Pistoletto, Merz, Kounellis, Paolini, Fabrizio, Anselmo, Prini, Ceroli e Piacentino.

“Il fenomeno, folgorante nella parola e suggestivo nell'idea, si proiettava subito nell'occhio del tifone che ancor oggi imperversa sulle mutevoli frontiere delle arti. Si proponeva come il ricambio atteso alle pressioni sempre più minacciose dell'« arte ricca» ed involuta, « perché basata sull'immaginazione scientifica, sulle strutture altamente tecniche, sui momenti polisensi, in cui il giudizio individuale si contrappone, imitando e mediando il reale, al reale stesso, con una prevaricazione dell'aspetto letterario su ciò che realmente si vuole" . Pensare e fissare, percepire e presentare, sentire ed esaurire la sensazione in un'immagine, in un'azione, in un oggetto, arte e vita, un procedere per binari paralleli che aspira al suo punto all'infinito. Da un lato un operare artistico che conduce l'attenzione sulle relazioni tra i vari linguaggi, si lega al « diffusionismo » linguistico con l’assunzione (sorta di « cleptomania » culturale) delle strutture filmiche, architettoniche, psicologiche e teatrali, segue la storia e si attiene ad un programma, dall'altro lo svolgersi asistematico del vivere. Nel «vuoto» esistente tra arte e vita, il libero progettarsi dell'uomo, il legarsi, creativo, al ciclo evolutivo della vita (siamo all'osmosi dei due momenti) per una affermazione del presente e del contingente.

Là un' arte complessa, che mantiene in vita la « correptio » del mondo, col tentativo di conservare « l'uomo ben armato di fronte alla natura». Qui un'arte povera, impegnata con l'evento mentale e comporta-mentistico, con la contingenza, con l'astorico, con la concezione antropologica, l'intenzione di gettare alle ortiche ogni « discorso » univoco e coerente (la coerenza «apparente » è un dogma che bisogna infrangere), ogni storia ed ogni passato, per possedere il « reale» dominio del nostro esserci. Al presente un'arte « ricca » ed involuta perché basata sull'immaginazione scientifica, sulle strutture altamente tecniche, sui momenti polisensi, in cui il giudizio individuale si contrappone imitando e mediando il reale, al reale stesso, con una prevaricazione dell'aspetto letterario ciò che realmente si vuole.

Alla convergenza tra arte ricca e vita, l'arte « povera », un esserci teso all'identificazione, co-sciente, reale=reale, azione = azione, pensiero=pensiero, evento = evento, un'arte che predilige l'essenzialità informazionale, il comporre teso a spogliare l'immagine della sua ambiguità e della convenzione che ha fatto dell'immagine la negazione di un concetto. Concetto che riemerge ora quale « deus ex machina » dinnanzi alla macroscopica valorizzazione della rappresentazione e del modus videndi, per una affermazione della « civiltà dell'intelletto ». Un'arte che trova nell'anarchia linguistica e visuale, nel continuo nomadismo comportamenti-stico il suo massimo grado di libertà ai fini della creazione, arte come stimolo a verificare continuamente il proprio grado di esistenza (mentale e fisica), come urgenza di un esserci che elimini lo schermo « fantastico » e mimetico dinnanzi agli occhi della comunità degli spettatori, per condurli dinnanzi alla specificità mentale e fisica di ogni azione umana, quale entità da completare e giudicarsi.

L'arte povera non è infatti un operare illustrativo e teorico, non ha come obbiettivo il processo di neo-rappresentazione dell'idea, ma è indirizzata a presentare il senso emergente ed il significato fattuale dell'immagine, come azione cosciente, si presenta lontana da qualsiasi apologia oggettuale ed iconica, è un agire libero, quasi intuitivo, che relega la mimesi a fatto funzionale e secondario, i nuclei focali risultando l'idea e la legge generale. Un momento freschissimo che tende alla « decultura », alla regressione dell'immagine allo stadio preiconografico, un inno all'elemento banale e primario, alla natura intesa secondo le unità democritee e all'uomo come « frammento fisiologico e mentale ». Una continua presentazione del significato fattuale che è un ritorno al medioevo, non soltanto da un punto di vista tecnico (co-me ha segnalato, puntualmente Fagiolo in merito alla « tecnica proletaria »), ma anche poetico. Un'identificazione uomo-natura, che non ha più il fine teologico del narrator-narratum (Sanguine-ti) medioevale, ma un intento pragmatico. Una denotazione che è identificazione totale tra « reinvenzione ed invenzione » (Bo-etti). Quasi una riscoperta della tautologia estetica, il mare è acqua, una stanza è un perimetro d'aria, il cotone è cotone, il mondo è un insieme impercepibile di nazioni, l'angolo è la convergenza di tre coordinate, il pavimento è una porzione di mattonelle, la vita è una serie di azioni. L'idea, l'evento, il fatto e l'azione visualizzati e materializzati sono infatti le focalizzazioni del rapporto di simultaneità tra idea ed immagine, conducono solamente ad un allargamento di esperienza circa quell'idea, quell'evento, quel fatto e quell'azione, non divagano con elementi ambigui e polisensi, sono la concretizzazione visuale di un fatto o di una legge naturali ed umani. Non importa se le « cose », che ne risultano, sono eseguite in un « particolare » materiale ("i materiali sono le maggiori afflizioni dell'arte contemporanea " LeWitt) o se rispondono a precedenti realizzazioni dell'autore che li ha costruiti o di altri autori. L'idea visualizzata e materializzata non contiene un pro-gramma, non segue una storia individuale o sociale, è solamente la presentazione di un termi-ne, non accetta relazioni, non rappresenta, ma presenta. “ [1]

“Per contro l'«arte povera» si configurava impegnata con l'evento mentale e comportamentistico, con la contingenza, con l'astorico, con la concezione antropologica, con l'intenzione di gettare alle ortiche ogni discorso univoco e corrente, ogni storia ed ogni passato, per possedere il reale dominio del nostro esserci.” [2]

Le ragioni teoriche del gruppo sono chiarite dallo stesso Celant in “Arte Povera. Appunti per una guerriglia”, pubblicato il 23 novembre 1967 su Flash Art n. 5, che porta il movimento all’attenzione del pubblico. Celant riflette sul ruolo dell’artista e sul rapporto tra arte e sistema socio-economico, propugnando un potente schieramento contro le logiche di mercificazione e codificazione dell’arte e abbozzando un nuovo paradigma di libertà creativa e progettuale. L’artista contemporaneo si trova ridotto ad essere un ingranaggio del sistema produttivo e deve rispondere alle richieste di mercato e alle aspettative del pubblico, reprimendo le sperimentazioni. “Avuta un’idea vive per e su di essa. Non gli è permesso creare e abbandonare l’oggetto al suo cammino, deve seguirlo, giustificarlo, immetterlo nei canali”. Bisogna allora svincolarsi da questo sistema e ritornare alla libertà originaria del gesto artistico.

“Prima viene l’uomo, poi il sistema”. Questa frase sintetizza l’approccio antropologico dell’Arte Povera, che mette al centro della riflessione artistica l’essere umano nella sua dimensione più concreta e reale. La creazione non è più vista come un processo subordinato a una logica produttivistica, ma come un gesto che esprime la condizione esistenziale dell’uomo e il suo essere nel mondo. In questa affermazione, vi è un intrinseco riecheggio marxiano dell’alienazione: come Marx denuncia l’alienazione del lavoratore, Celant denuncia l’alienazione dell’artista costretto ad essere una macchina dal mercato dell’arte che ne soffoca la creatività. E allora necessario è il rifiuto per i materiali industriali, tecnologici e contemporanei per tornare agli elementi primari e grezzi come il legno, la terra, la pietra e il carbone, con l’intento di creare “un’identificazione uomo-natura, che non ha più il fine teologico del narratum medievale, ma un intento pragmatico, di liberazione” in contrasto con l’artificiosità della società consumistica e con correnti come la Pop Art. L’Arte Povera, pur non riconoscendosi strettamente in una ideologia, celebrava il ritorno alla natura come via d’uscita dalla razionalità borghese repressiva e del sistema capitalista. L’artista “guerriglio” deve sottrarsi alle regole e realizzare un’azione contingente che si fonda sull’interazione diretta tra l’artista e il mondo, rinunciando a qualunque coerenza stilistica, poiché “la coerenza è un dogma che bisogna infrangere!”. Dal 1967 in poi, sarà lo stesso Celant che definirà a mano a mano, tramite mostre e articoli, un nucleo definito di artisti inquadrabili nell’ambito del movimento e ne risulterà un elenco di tredici nomi: Giovanni Anselmo, Alighiero Boetti, Pier Paolo Calzolari, Luciano Fabro, Jannis Kounellis, Mario Merz, Marisa Merz, Giulio Paolini, Pino Pascali, Giuseppe Penone, Michelangelo Pistoletto, Emilio Prini e Gilberto Zorio. Questi artisti avevano in comune l’immediatezza del gesto e la caducità della sua materia, il mettere in crisi il rapporto tradizionalmente intenso tra significato e significante.


[1] Germano Celant, Arte Povera, catalogo della mostra, Galleria de’ Foscherari, 1968

[2] Gianni Cavazzini, L’Eco della Stampa, n. 30, 22 ottobre 1968