DOMENICO GNOLI | 29 aprile - 19 maggio 1967

Domenico Gnoli

con una presentazione di RENATO BARILLI

Domenico Gnoli si vale, nei suoi dipinti, di una serie di operazioni e di accorgi­menti che sono estremamente esemplari del clima di « nuova oggettività » in cui ci troviamo attualmente. In primo luogo, l'avvicinamento alle cose è condotto con criteri alterati e abnormi rispetto a quelli usuali. Una grave forma di miopia sembra affliggere l'artista e costringerlo a por­tare gli occhi a poche spanne di distanza dai motivi ritratti, così da non poterli ab­bracciare in un punto di vista globale, ma da spezzarli irrimediabilmente in brevi spettacoli parziali: l'allacciatura di una giacca, il taglio di una tasca, la « riga » di una pettinatura, il colletto di una ca­micia, e così via. In ogni caso, si può constatare una sfasatura rispetto a quan­to sarebbe richiesto da una visione «nor­male»: quella visione normale la cui pri­ma esigenza sta nel porsi, rispetto al­l'oggetto contemplato, a una distanza tale da affermarne il senso e la funzione: la distanza «utile», insomma, che ci con­sente di dargli un nome, di catalogarlo tranquillamente, di assegnargli una paci­fica e non controversa destinazione. Nei dipinti di Gnoii, al contrario, si do­vrà parlare semmai di una distanza « inu­tile », sbagliata. Come un fotografo e un operatore che sbaglino nell'inquadrare l'oggetto da ritrarre, e ne lascino fuori il meglio, per esempio, la testa di colui che indossa il vestito, i tratti fisionomici della persona di cui veniamo a conoscere così intimamente la pettinatura. O senza ricorrere a occasioni così esterne e mec­caniche, pensiamo a quanto succede nel­l'ambito della nostra stessa vita psichica e percettiva, in taluni momenti di delirio, di disgusto, di condizioni comunque alte-

rate, in cui appunto lo sguardo è calami-tato da brevi frammenti del panorama circostante, colti di per se stessi e non riportati nel loro più usuale contesto. In casi del genere, non è che intervenga un processo esplicito di deformazione fantastica e visionaria, poiché anzi forse in nessun'altra occasione ci si affida così totalmente alle armi di un puro «vedere» e percepire. Ma si tratta di un vedere, di un percepire che non si possono più dire neutri e passivi, bensì in funzione di segrete ossessioni, tali da ridare alle cose un potere di choc, di « nausea » at­traente e repellente nello stesso tempo. Attraverso un abbandono apparentemente totale all'inerzia contemplativa, si viene in effetti esercitando un atto di libertà, di non leggere le cose per il verso solito e ormai codificato, ma di riscoprirle se­condo angolazioni inedite. In procedimenti del genere sta il succo della attuale « nuova oggettività »: ritro­vare, come è nel dovere di ogni ricerca artistica, l'autenticità di rapporto con i vari aspetti del mondo; ma non puntando su atti di scoperto intervento stilizzante dell'artista, bensì simulando, a tutta pri­ma, un suo ritrarsi in una zona opaca e inautentica, in un atto contemplativo « bete », inanimato, fiaccamente miope e aderente. Una strategia questa, di cui appunto Gnoli offre un ottimo esempio: un esempio particolarmente probante e significativo per quanto riguarda il pro­blema di come rendere la materia degli oggetti affrontati. Si sa bene che cosa imporrebbe al riguardo l'ottica « norma­le »: tutta presa a bloccare le linee prin­cipali e tipiche di un evento, essa consiglierebbe di sbrigarsela rapidamente, per quanto riguarda la materia, il tessuto di cui sono fatte le cose, di ricorrere quindi a poche stesure compendiarie, a poche macchie di colore. Del resto, non interviene forse l'atmosfera ad anneb­biare i tratti troppo netti e marcati dei vari oggeti, a confondere linee e dise­gni, a stendere su tutto un velo trepido e cangiante? E se si tratta di rappresen­tare una figura umana, l'interesse non dovrà andare a prevalenza all'espressio­ne del volto, o al gesto delle mani, o ad ogni altro elemento fisionomico? Chi po­trà avere occhi per il disegno minuto delle stoffe in cui l'attore umano si drap­peggia nel recitare la sua parte? Gnoli non è di questo parere; la distanza ottica « sbagliata » e inutile provoca i suoi effetti anche in questa sede, portan­do così a cogliere con estrema lucidità le trame di una stoffa, i ricami di una coperta, il disegno a quadri di una tova­glia. Non c'è compendio, non c'è sintesi, ma una analisi lucida, ossessiva, che fra l'altro procede ignorando affatto la pre­senza dell'atmosfera, come se tra lo sguardo e la materia percepita ci fosse il vuoto più spinto. Una esecuzione, in­somma, in « trompe-l'oeil », che più che « rappresentare » le stoffe e i tessuti, li vuole restituire « tali e quali », come ap­punto si possono offrire alla visione rav­vicinata di un miope. E qui di nuovo siamo in presenza della solita strategia: in un primo momento, l'atto di abbandono, il rifugio nella passività, nella « bètise » di una esecuzione minuziosa, esasperante; ma poi, il momento successivo del ri­scatto, giacché quell'accumulati pazien­te e insistito di fibre, di bioccoli di pel­liccia, quel loro allinearsi scandito e mec­canico, alla lunga danno il capogiro, mi­nano la sicurezza di una concezione an­tropocentrica facendo avvertire che le forze sconfinate della materia sono al­l'opera molto vicino a noi, negli indumenti che portiamo quotidianamente: basta un brano di maglia per sconfiggere la nostra orgogliosa fiducia nelle armi della discrezione, nel primato delle forme « chiare e distinte ».

Naturalmente, a questo punto non si può dimenticare che non molti anni fa aveva già largamente provveduto l'informale, a dare corda a queste propensioni esplo-sive della materia, provocandone scoppi e deflagrazioni di incontenibile esube­ranza. Ma a quel tempo, l'artista interve­niva scopertamente a infrangere la prima pelle delle cose e del mondo, per darsi a una complessa operazione stratigrafi-ca. Ora invece, per Gnoli e per ogni altro protagonista della « nuova oggettività », la materia potrà esser sorpresa per quel tanto che si mostri in superficie e che si presti a un preciso scandaglio ottico. La rilevanza che in tal modo quest'ultimo termine viene ad assumere fa nascere inevitabilmente il problema se in ciò si debba vedere qualche convergenza con le ricerche che oggi si dicono appunto « optical ». Una questione che si è già posta Carluccio, attento presentatore di Gnoli in una mostra torinese, concluden­do giustamente, però, in una risposta negativa. Sicuramente la materia che compare nelle opere di Gnoli è ormai distante da quella impetuosa e tellurica dell'informale; è una materia « pettina­ta », costituita dal monotono e uguale ri­petersi di fibre artificiali, ordinate secon­do un pattern chiaramente decifrabile. Dunque, una collusione con le filigrane e le scacchiere della Optical Art... Ma d'altronde quest'ultima svolge i suoi ritmi in un ambito di pura progettazione razio­nale, senza nulla a che fare con l'esisten­za concreta degli oggetti. Ed è qui il punto che non tiene, giacché ben difficil­mente l'uomo potrà infliggersi qualche profonda emozione ed esperienza del su­blime valendosi delle sue proprie armi, propinandosi un bombardamento di puri schemi geometrici, di idee impalpabili. Occorrerà invece il contatto duro e diffi­cile con un « altro da sé », con qualcosa di perentoriamente materiale, anche se di una materialità non più bruta e scon­volgente come quella informale, ma ordinata e composta. I ritmi, le filigrane che riempiono i quadri di Gnoli, benché suc-cedentisi secondo schemi per gran parte regolari e prevedibili, appartengono pur sempre alla dura consistenza di certe « cose », sono strettamente legati alla stoffa di un abito, al rivestimento di una poltrona, alla coperta di un letto; si agi­tano, premono, urgono, senza alcun dub­bio, all'interno di quegli oggetti, mostran­do la tendenza a travolgerne i confini; ma resta fermo che solo in quei luoghi è dato sorprenderli, e che sarebbe illu-sorio pretendere di trasferirli fuori di essi, trascriverli nei termini astratti di un arabesco geometrico. Anche per un altro verso, Gnoli ci si mostra preoccupato di tutelare l'esisten-zialità materiale dei suoi oggetti. Molte volte fo sguardo ravvicinato con cui egli li attinge lo porta in contatto così stret­to, con la loro superficie locale, da non essere più in grado di coglierne le linee di contorno; e in tal caso il tessuto di un vestito o di una poltrona riempie per in­tero il nostro orizzonte. Ma supponiamo di prendere un distacco maggiore (quasi come un « satellite » che si sollevi a suf­ficienza dalla Terra, tanto da coglierne la curvatura). In che modo apparirà allora questa linea di confine? A tal proposito, Gnoli non esita neppure un istante nell'at-teggiarla secondo le richieste della pro­spettiva tradizionale: le sponde di un let­to, i tavoli di un ristorante, gli orli di una vasca, se, ripetiamo, si riesca ad abbracciarli con lo sguardo (il che non avviene sempre) ci appariranno conver­genti secondo il classico criterio della concorrenza di ogni linea verso un unico punto di fuga. Soluzione arrischiata, giac­ché la prospettiva tradizionale è lo stru­mento-principe di cui si vale la visione « normale » per inquadrare le scene e imporre loro un ordine gerarchico. D'al­tronde, a voler rinunciare affatto alla pro­spettiva, si dovrebbe cadere in una solu­zione « araldica », darsi cioè a rappre­sentare gli oggetti come simboli in uno stemma, il che sarebbe un modo di contraddire un loro insopprimibile carattere esistenziale, il fatto che se ne stanno in uno spazio profondo, e non tutto squa­dernato in primo piano; così come altro insopprimibile carattere esistenziale è quello della loro materialità. La conver­genza prospettica appare allora come del tutto irrinunciabile. Per disarmarla, ba­sterà del resto ricorrere ai soliti sfasa­menti di inquadratura: basterà tagliare la scena in modo « sbagliato », alla luce dei criteri convenzionali, e per esempio, se questa ci fornisca l'immagine di un letto, non giungere a sorprendere i volti della coppia che vi si trova, il che pure sarebbe il particolare più ghiotto e rilevante, in base a un normale senso dello spettacolo. O in genere, basterà fare un uso estre­mamente parco, di tale convergenza pro­spettica, applicarla per stringere un og­getto alla volta, con eccezionale eviden­za, e impedirle di ordinarsi su vasta scala. O se proprio a volte l'abbraccio diviene così comprensivo da afferrare una scena intera, un letto con la dormiente, e il tap­peto a terra, e le file di mattonelle, ele­menti tutti animati e orchestrati secondo un unico ritmo di fuga prospettica, in que­sto caso potrà intervenire una riserva estrema: quella di congelare la scena stessa, di bloccarla in una sospensione magica, che potrebbe far pensare a qual­che possibile suggestione metafisica, dalla metafisica altamente gelida e mo­numentale di De Chirico, a quella più do­mestica di Baithus, Ma conviene ribadir­lo, tanto rigore e congelamento metafisi­co è solo uno strumento, e non già un fine. Gnoli, al pari di molti altri protago­nisti dei nostri giorni, non è alla caccia di essenze celesti, di divinità inaccessi­bili; vuole al contrario operare il riscat­to più aderente e integrale del nostro «es­ce rei» esistenziale, delle cose concrete e materiali; ma si deve poi constatare che questo riscatto integrale delle cose materialmente esistenti sa caricarsi di una stupefazione non inferiore a quella concessa alle più alte idee metafisiche.

RENATO BARILLI