8 PITTORI ROMANI | 8 - 28 APRILE 1967


8 PITTORI ROMANI, organizzata in collaborazione con la Galleria La Tartaruga di Roma ed esposta presso la Galleria de’ Foscherari nell’aprile del 1967, si presenta nel panorama bolognese e italiano come manifestazione del nascente movimento di Scuola di piazza del Popolo.


« “Scuola di Piazza del Popolo": come e quando è nata questa definizione?

Non saprei dire, ricordo che circolava. Dovrebbe risalire al 1965-66, perché, nell'aprile del 1967 penso di averla registrata per primo, o insomma tra i primi, nella presentazione di una mostra di "Otto pittori romani" (Angeli, Ceroli, Festa, Fioroni, Kounellis, Pascali, Schifano, Tacchi) nella galleria "de' Foscherari" a Bologna, presentazione che cominciava così:
"Se piazza del popolo non significasse, come significa, piazza del pioppo, potrebbe esserci una specie di destinazione (ma chi dice che il destino non sia anche ignorante?) nel rimando da popolo a pop. Scuola di piazza del Popolo, ovvero i Pop ro-mani: sono infatti le due definizioni più frequenti anche se, ovviamente, la seconda è odiosa agli inte-ressati, come qualsiasi etichetta genericamente cumulativa e, in sostanza, impropria". »
[1]


Se Piazza del Popolo non significasse, come significa, piazza del pioppo, potremmo forse intravedere un’ironica coincidenza, un gioco linguistico tra “popolo” e “pop”. Gli artisti che si radunavano in quella piazza erano stati etichettati come i Pop Romani – una definizione che, sebbene diffusa, era infelice alle orecchie dei suddetti artisti, in quanto sentita troppo riduttiva e, in fondo, impropria. La Pop Art era un fenomeno americano ed era riconosciuta per i suoi caratteri distintivi – o “velleità superficiali” per Calvesi [2] – che, in realtà, mai erano stati realmente adottati dagli artisti romani. Calvesi rivendica una certa genialità italiana, una sensibilità unica che si concentrava su temi tipicamente italiani e legati alla loro cultura, al paesaggio e alla tradizione locale. Le tematiche erano sempre nostrane e alcune di esse, come la giustapposizione di paesaggi mare-terra-cielo, creavano composizioni che riflettevano il paesaggio e la realtà visiva italiana, ed erano apparse in Italia intorno al 1962, rispetto, ad esempio, a certe innovazioni di Lichtenstein. La Pop Art americana, infatti, rispondeva a una società di massa e consumistica globalizzata, mentre gli artisti di Piazza del Popolo, pur prendendo ispirazione dal fenomeno pop, cercavano di inserire un senso di identità culturale più legato al contesto italiano. Prendiamo come esempio l’opera di Lichtenstein Whaam! (1963), che, con linee nette e colori saturi, rappresenta un monito alle implicazioni della guerra, prendendo ispirazione dai fumetti popolari o dai film di Hollywood di quegli anni ambientati durante la Guerra Fredda, ma non avendo legami diretti con un luogo o con l’appartenenza a una particolare tradizione culturale. Tano Festa, invece, con Michelangelo according to (1967) o La creazione dell’uomo (1964) esposta alla de’ Foscherari in occasione della mostra, preleva immagini del passato conosciute al grande pubblico ma con rimandi alla cultura italiana. Ciò che distingue il Pop romano dalle critiche che lo vedrebbero superficialmente derivativo dall’esperienza americana, è quindi la capacità di questi artisti di guardare ai modelli esterni e restituirli attraverso una lente culturalmente radicata e densa di significati storici. Come conciliare un passato glorioso con un presente che chiede continue innovazioni? Gli artisti di Piazza del Popolo hanno saputo mantenere questa tensione donando opere che non sono mai il solo frutto di un semplice formalismo, bensì di un’interrogazione profonda sul ruolo dell’immagine nella società di massa[3], caratterizzandosi per una grande varietà di ricerche e stili, un’attitudine lirica e immaginifica con l’utilizzo di un linguaggio più raffinato e complesso rispetto alla Pop Art americana, dove prevale la connotazione del kitsch delle icone più emblematiche della cultura di massa, rese in modo stereotipato ed iconico. [4]

Il movimento romano nasce nel 1958, quando alla galleria “Appia Antica” di Milano si riuniscono quattro artisti, tra cui il milanese Piero Manzoni e i tre romani Francesco Lo Savio, Mario Schifano e Giuseppe Uncini. Insieme a Tano Festa, Giosetta Fioroni e poi Lombardo, Mambor, Tacchi, Pascali e Ceroli, questi artisti avrebbero dato vita ad un gruppo in grado di ridefinire il linguaggio artistico dell’epoca. Nel 1959 Angeli, Festa, Lo Savio, Schifano, Uncini e De Bernardi si propongono in una collettiva nella galleria "L'Appunto" in via Gregoriana a Roma, a cui seguiranno, l’anno successivo, due esposizioni (senza la presenza di De Bernardi); in aprile esporranno al "Cancello" di Bologna, presentati da Emilio Villa, e in novembre a "La Salita" di Roma, presentati da Pierre Restany.  In questa occasione, Restany parla di una collocazione di questi cinque artisti entro i “Nouveaux Rèalistes” e i “New Dada”; sebbene oggi chiamare in causa il neodadaismo possa sembrare fuorviante, Calvesi e una nota del suo “Le due avanguardie” (1966) ci forniscono la testimonianza di una conferenza nell'ambito della Quadriennale, intitolata “Dall'Informale al Neo Dada”, tenutasi nel 1961, dove aveva presentato come neo-dada "le cose più svariate, da Rauschenberg e Arman alle grafie di Novelli e ai fumetti di Perilli, a Rotella e ai quadri vuoti di Angeli-Festa-Schifano"[5]. Franco Angeli, Tano Festa e Mario Schifano, pur nella diversità dei linguaggi erano uniti dal bisogno di modificare lo sguardo sull’arte imposto dal panorama italiano – quello storico-artistico e quello politico-ideologico – e di esplorare le nuove dimensioni visive diffuse nella società dal cambiamento delle telecomunicazioni e della pubblicità. Con il termine neo-dada "si indicò dunque in un primo momento tutto ciò che, a parte l'effettiva configurazione di linguistica, rasentasse il non-senso, l'apparente gratuità; il fascino, come il sospetto, che emanava da queste esperienze, stava appunto nella loro decisa e in qualche caso mordente (altre volte invece, al livello di un facile e dilagante epigonismo, inutilmente deprimente) negazione ideologica". [6]

Ciò che maggiormente attraeva quei giovani artisti era la radicale abrogazione dell'ideologia, ma non soltanto dell'ideologia politica del Realismo, sentito come limitato e troppo legato ad una realtà incapace di rappresentare la complessità della società moderna, ma anche dal pensiero razionalista che caratterizzava gli Astrattisti e la dimensione esistenzialista che dominava l’arte degli anni Cinquanta, più introspettiva e concentrata sul dramma e l’alienazione dell’individuo. Gli artisti della Scuola di Piazza del Popolo rifiutavano questi approcci troppo teorici e distaccati dalla realtà quotidiana e cercavano un nuovo linguaggio che fosse più legato alla cultura popolare, capace di raccontare la società del boom economico degli anni Sessanta. La guerra aveva creato filosofemi e moralismi, a cui l’arte rispondeva con spensieratezza polemica contro il pensieroso Informale, con il suo tono serioso ed introspettivo. Il loro scopo era spazzare via tutto, fare una tabula rasa, quindi in un’ottica neo-dadaistica in quanto portatrice di non-senso, cioè disimpegno dalla ricerca forzata di un senso e riduzione dei problemi ai minimi termini, o al loro nocciolo duro.

Da lì a poco, la nascita della Pop Art e da lì gli artisti di Piazza Del Popolo, complice l’inatteso miracolo economico e l’accelerazione dei consumi, si fecero largo nella piena folla dell’arte con una fortissima spinta propulsiva. Gli anni Sessanta erano un’epoca anti-razionale e romantica, in cui la generazione era cresciuta nel dopoguerra e nella sua prosperità. Avviene una “contro-riformazione”, in cui il sublime dell’astrazione viene dimenticato in nome del quotidiano, del supermercato e del volgare immediatamente accessibile[7]. E così quei giovani artisti figli di nessuno, traslocano linguaggio e iniziano a parlare la versione italiana del linguaggio pop avviato, poco prima, da Burri e Fontana. La storia che viveva Roma in quegli anni è sentita, ad oggi, irripetibile da tutti quegli artisti che assorbirono visceralmente e con sfacciataggine il frizzante clima che si stava vivendo nella capitale. Plinio De Martiis lo racconta nel catalogo di quella nuova galleria che avrebbe successivamente aperto a piazza Mignanelli, racconta come “il loro andirivieni nella magia di quella piazza ha tessuto quella trama che oggi, a vent’anni di distanza, possiamo riconoscere come una delle esperienze più esaltanti dell’avventura moderna in Italia”[8].




8 PITTORI ROMANI

presentazione di MAURIZIO CALVESI

“Se piazza del popolo non significasse, come significa, piazza del pioppo, potrebbe esserci una specie di destinazione (ma chi ci dice che il destino non sia anche ignorante?) nel rimando da popolo a pop. Scuola di piazza del Popolo, ovvero i Pop romani: sono infatti le due definizioni più frequenti anche se, ovviamente, la seconda è odiosa agli interessati, come qualsiasi etichetta genericamente cumulativa e, in sostanza, impropria. (Ma stiamo attenti, che il posticino disdegnato e ancor caldo non arrivi ad occuparlo col cappello di Fieschi l'arruffamento dell'ultima ora). Le due definizioni più frequenti, dicevo, con cui si è voluto indicare un insieme di fatti e di artisti che dal 1960 in poi hanno avuto in comune certi caratteri sì, ma soprattutto un clima; un clima che si è formato intorno ad una galleria di piazza del Popolo che pur avendo per totem uno degli animali più impacciati e rinchiusi è stata, negli ultimi anni, forse la galleria più agile e aperta (e sia detto senza togliere il merito ad altre gallerie che, anche proprio in relazione a questo stesso cli-ma, hanno svolto un ruolo e dato contributi, come « La Salita »).

Raggruppare certi nomi oggi che ognuno ormai, come naturale, va sempre più per la sua strada, e sempre più è chiamato a rispondere come singolo del suo personale bilancio, è sempre più un omaggio alla « Tartaruga» (un omaggio che si rende senza perplessità anche perché sull'operazione di questa galleria non ha mai pesato il calcolo commerciale). E raggruppare certi nomi non si può senza pensare anche ad altri, ad esempio all'« antefatto» di Mimmo Rotella. Poi ci fu il caso Kounellis, il trio Angeli-Festa-Schifano e le prime sortite di Bignardi e Giosetta Fioroni; poi ancora un terzetto, Lombardo, Mambor e Tacchi; infine altre due entrate in scena, quella di Ceroli e quella di Pascali. Non mi riferisco ai tempi di lavoro di questi artisti, ma ai tempi della loro apparizione, a piazza del Popolo, certo.

Non vorrei parlare dei singoli artisti, neanche di quelli specificamente presenti in questa selezione bolognese, e tralascerò anche di ricordare il successo non banale, ma vivo (direi eccezionale, in Italia, per degli artisti di avanguardia) di alcuni, e il loro diffuso, stimolante riflesso che presto si è avvertito in molti punti della situazione italiana.

Vorrei piuttosto limitarmi a rspondere, e non a titolo di difensore (anche perché ogni artista si difende o non si difende solo con il proprio lavoro; e qui è invece piuttosto la situazione che s'intende non già difendere ne, ormai, tornare a proporre come tale, ma ricapitolare con uno sguardo panoramico e già impaziente), vorrei dunque limitarmi a rispondere come privato interlocutore a quelle che sono le obbiezioni che più comunemente si sono mosse e si muovono a queste proposte (la cui novità, soggiungo, non è sminuita dal calo ormai ben avvertibile della « moda » pop; ché anzi, sfumando la moda come tale, e venendo a noia il poppi-smo, meglio si delineano i caratteri originali ed autoportanti). E le obbiezioni sono principalmente due.

La prima è sollevata (in nome di quel « purismo» che poi esso stesso costituisce il secondo capo d'accusa) sopratutto qui a Roma, ed è l'accusa del « novecentismo», cioè del « ritorno » all'ita-liana, ritorno al « figurativo», s'intende. La pop art, si dice, è un fenomeno americano; queste cose, da noi, non rappresentano che velleità superficiali, impazienze di chi recalcitra sulla dura via della virtù (cioé dell'astrazione programmatica) . Ed è vero che la pop art è stato un fenomeno americano, specie se si pensa ai suoi caratteri distintivi più esterni. Ma è anche vero che questi caratteri distintivi esterni non si sono ritrovati, in questi artisti, quasi mai. La tematica anzi, è stata sempre nostrana. 

I « paesaggi » erano quelli della neo-nata autostrada del sole e bisogna anzi dire (non per un'assurda pretesa di pareggiare i conti con una situazione troppo più potente, radicata e centrale come quella americana, ma per rivendicare le solite scintille disseminate della nostra genialità), bisogna dire che questo tema specifico del paesaggio nella sua elementare giustapposizione di mare-terra-cielo è apparsa da noi (fine del '62 - inizi del '63) prima di trovare un riscontro nell'invenzione pur radicalmente diversa, e senza addentellati, di Lichtenstein; e così sono apparsi prima da noi i dislocamenti dell'immagine in senso che impropriamente si direbbe dinamico, comunque « neo-futuristico», correttivo insomma della pura serialità (che impropriamente potrebbe dirsi statica) di Warhol. Michelangelo, poi, Leonardo, le vedute di Roma, i simboli di Roma, questo è stato un repertorio tipicamente italiano, inutile dirlo. Facile trasposizione? non so, certo il senso espressivo è stato ed è totalmente diverso dalle cose americane, e poi c'era una piattaforma di cultura anche per questo, cioè il De Chirico metafisico; infine il gusto di certi materiali, legno o stoffa, la dimensione artigianale, tutto questo ha corrisposto non ad una traduzione, ma ad una tradizione, e soprattutto ad una condizione, autenticamente italiana. Non credo dunque che l'argomento contrario potrà essere quello della non autenticità o dell'orecchiamento culturale. Il problema, sarà, certo, di considerare i limiti caso per caso, che poi, nel complesso, potranno essere i limiti stessi di una condizione italiana, e direi quindi il prezzo stesso di quella autenticità (ma quello di misurare le bare è un compito che si demanda volentieri e più tardi possibile all'impresario delle pompe funebri).

Quel che soprattutto conta, è lo sforzo, così chiaramente denunciato in queste opere, di rinnovamento del linguaggio; e come il discorso doveva essere aperto per questi artisti, così dovrà esserlo per quelli che verranno subito dopo; perché il discorso continua cambiando, nessun risultato può esser stabile; e nessun percorso può essere prestabilito, anche se a guardare a ritroso si riconosce sempre una traccia (come in montagna, la strada che si è fatta si scopre soltanto quando si è arrivati in cima). Infine ogni generazione ha i suoi problemi, i suoi punti da mettere a fuoco, e il sospetto degli anziani per i più giovani è naturale ma è quasi sempre sbagliato.

L'altra accusa che si muove, ma fuori di Roma, è quella appunto del « purismo » romano, un denominatore comune che, in effetti, è riconoscibile in molti aspetti della cultura figurativa romana, anche se tra loro in polemica e in cattivo rapporto di stima. Il « purismo » corrisponderebbe ad una forma di freddezza, di impassibilità con sfumature ciniche o nel migliore dei casi d'assenteismo, senza comunicazione con la vita; a un eccesso di formalismo, o di unilateralismo formale, ad un rifiuto, infine, di quella contaminazione che altri invoca invece come strutturale-semantico-ideologico - esistenziale. Invocazione che si fa ascoltare a livello teorico, ma che all'atto pratico rischia di venire in soccorso soprattutto alla confusione, sovrapposizione delle idee e non alla loro dialettica, ad una carenza, infine, di « stile », cioè di linguaggio. A mio modo di vedere la freddezza, o soltanto la nudità, del « purismo » romano va intesa, almeno nei casi migliori, nei suoi margini di energia intellettuale e di aggressiva presenza proprio nella vita, e va comunque valutata nel suo rapporto indubbiamente sincronico con i fatti in corso dell'arte. Infatti non sembra dubbio che oggi l'arte attraversi un momento di crisi proprio in quanto « oggetto ansioso», il che per noi che amiamo (con le nostre buone ragioni, forse) l'ansia e l'andiamo magari a ricercare negli antichi, può essere spiacevole e deludente; ma non deve indurci a prefabbricare dei binari che, tanto, l'arte non imboccherà mai solo per farci contenti. Perché l'arte è, soprattutto, imprevedibile.

E io personalmente, se posso dire, amo moltissimo questa imprevedibilità perché è il carattere stesso della vita: l'imprevedibilità è la condizione per acquisire nuove esperienze, perché ciò che è previsto è già in noi e quindi non può arricchirci. Ciò non esclude che mi ritenga autorizzato e anzi in dovere, come critico (e non soltanto spero per « quel gusto lievemente conservatore » che l'amico Bonfiglioli mi attribuisce con un'acutezza forse ingiusta) di ricercare a cose avvenute un filo del discorso che c'è e che è necessario individuare se non si vuole dar ragione a chi vede l'arte contemporanea come un bizzoso e gratuito succedersi di mode. “


OPERE IN MOSTRA (in sequenza):

Mario Ceroli, Piper, 1965, cm 200 x 200 x 200
Cesare Tacchi, Quadro per una coppia felice, 1966, cm 132 x 111
Mario Schifano, Futurismo rivisitato, 1965, cm 120 x 200
Giosetta Fioroni, Liberty, 1964, cm 114 x 162
Franco Angeli, Ara Pacis, 1964, cm 150 x 200
Jannis Kounellis, Il mare rosa, 1963
Tano Festa, La creazione dell’uomo, 1964, cm 220 x 170
Pino Pascali, Il Colosseo, 1964

[1] Intervista a Maurizio Calvesi di Rossella Sigillato
da ROMA ANNI ‘60. AL DI LÀ DELLA PITTURA, Edizioni CARTE SEGRETE, Roma, 1990

[2] M. Calvesi, Ceroli, La casa Usher, Firenze, 1983

[3] Plinio De Martiis, L’arte pop in Italia. Pittura, design e grafica negli anni Sessanta, Galleria d’arte Niccoli, Parma, 1999

[4] Silvia Pegoraro, “ICONE OLTRE IL POP. Franco Angeli, Tano Festa, Mario Schifano”, Grafiche Turato, Padova, 2024.

[5] Roma anni 60. Al di là della pittura, Roma, Edizioni CARTE SEGRETE, 1990

[6] M. Calvesi, Le due avanguardie. Dal futurismo alla pop art, Milano, Lerici Edizioni, 1966

[7] Alan Jones, L’epopea pop: Quando Godot è arrivato dall’America, in L’arte pop in Italia: pittura, design e grafica negli anni Sessanta, Verona, Grafiche Aurora, 1999

[8] Plinio De Martiis, in G. Parise, Scaglie di Tartaruga, in Artisti, Neri Pozza Editori, Vicenza, 1994, p.100.