Mario Ceroli 1962-68 - 21 Aprile - 30 Ottobre 2012
Nel presentare un'ampia e meditata selezione delle opere prodotte da Mario Ceroli negli anni sessanta, abbiamo cercato di perseguire due obbiettivi strettamente connessi. Da un lato contribuire all'interessante revival della neoavanguardia artistica, in particolare della sua fase più matura, raggiunta negli anni sessanta, che si sta sviluppando con una certa intensità; dall'altro rendere omaggio a un artista, che di quella stagione è stato un indiscusso protagonista ed ha avuto proprio negli anni sessanta una della fasi più felici della sua prorompente creatività. Siamo consapevoli che bisognerebbe andare oltre la semplice riproposta di un autore, per quanto esemplare, e cercare di reinterpretarne l'opera, dopo cinquant'anni, non solo alla scontata ricerca di una generica “attualità”, bensì anche di indicazioni critiche atte a farci comprendere se questa rinnovata attenzione per le neoavanguardie artistiche preannuncia una vera e propria “rivisitazione”, nel senso di una ripresa di tendenze realmente innovative nell'universo artistico, oppure sia dovuta a motivi contingenti. Confessiamo di non aver avuto l'animo di affrontare un compito tanto ambizioso (così, comunque, è parso a noi) e abbiamo ripiegato sulla soluzione che ci è parsa la più filologicamente corretta.
Dopo aver consultato la sterminata letteratura critica esistente sul nostro artista, spesso di alto livello, e deciso prudentemente di evitare il viaggio ermeneutico nel mare aperto degli eventi futuri, abbiamo optato per accompagnare la mostra con due scritti d'epoca, opportunamente sfrondati, dovuti a Pietro Bonfiglioli. Rischiamo consapevolmente l'accusa di excusazio non petita... anticipando che non si tratta solo di una soluzione “autarchica”, anche se notoriamente Ceroli è un autore della nostra galleria, dove ha tenuto numerose e felici esposizioni, e Bonfiglioli ne è stato l'autorevolissimo consulente culturale, creatore di un Notiziario, pubblicato in appendice ai cataloghi, che proprio negli anni sessanta giunse a un prestigio nazionale indiscusso. Proprio dal notiziario, datato gennaio 1967, è tratto Ceroli e la “Scuola romana”, scritto da Bonfiglioli in occasione della terza mostra allestita dal nostro artista a Roma, presso La Tartaruga, ma dando ampiamente conto anche delle precedenti. La gaia scienza di Ceroli, invece, è la presentazione, a lungo meditata, di un grande allestimento realizzato direttamente nella Galleria de 'Foscherari nel 1968 dal titolo L' Aria di Daria. I due testi, questa è la nostra convinzione, danno un' interpretazione critica dell'attività di Ceroli nel decennio considerato, fondata su un metodo analitico rigoroso, i cui risultati, per quanto opinabili com'e ovvio, restano fra i più interessanti raggiunti dalla critica che si cimentava in un confronto serrato, né accademico né militante, con i nuovi orizzonti aperti dalla rivisitazione delle avanguardie storiche. Non una soluzione autarchica, quindi, ma la riproposta, assieme a un artista fra i più rappresentativi della temperie culturale neoavanguardistica, di una metodologia critica al fine di verificare (non a caso prendendo spunto da Ceroli) se ancora offre elementi validi per un possibile dibattito sull'arte contemporanea.
In altri termini, Ceroli va considerato ormai alla stregua dei classici, oppure nel contesto attuale la sua opera non si è ancora riconciliata con le Muse e mantiene un potenziale innovatore tale da poter innescare inediti processi sperimentali? Se la seconda ipotesi è praticabile, lo sguardo attento alle opere e la lettura spregiudicata dei testi potrebbero darcene conferma.
Ceroli e " La scuola Romana"
Dire di Ceroli che è uno dei giovani più vivi nel panorama artistico italiano non è che rendergli giustizia. Ma l’occasione della sua terza personale alla galleria romana La Tartaruga è proprio di quelle che inducono il critico a forzare la misurata prudenza dei suoi giudizi…
A questo proposito è difficile resistere alla tentazione di tradurre il giudizio in termini linguistici. Infatti il discorso di Ceroli — poiché di discorso si tratta anche nel senso più specifico della fluidità sintattica — è particolarmente attento alle sostanze (nel doppio senso della scuola glossematica: come sostanza dell’espressione o materialità, fisicità del segno; come sostanza del contenuto o valore sociale, comunicativo e in definitiva ideologico del segno). Anzi, proprio questa consapevolezza — a buon livello critico — dell’unità della lingua come sostanza e forma allontana in modo netto il giovane scultore abruzzese e pochi altri artisti della “scuola romana” (il più maturo e complesso Schifano in primo luogo) dalla pericolosa fiducia in un discorso di mere forme che è propria di quelle sperimentazioni “linguistiche”, alle quali comunque egli partecipa per diritto di formazione (come non pensare all’influenza esercitata su di lui dai “corpi in moto e in equilibrio” dello Schifano “futurista”? ), sia pure con tutti i riferimenti d’obbligo al di là dello Atlantico (Nevelson) e al di là della Manica (Tilson). In un primo momento l’operazione di Ceroli consiste semplicemente in una riduzione linguistica: dell’immagine a segno (Calvesi parla di ideogramma) e del segno a sostanza dell’espressione o materialità segnica. Infatti, la prima personale alla Tartaruga (1964) mostra un lavoro particolarmente rivolto a provare la consistenza fisica del segno, la sua opaca sordità legnosa (grandi lettere dell’alfabeto, numeri enormi di orologi da stazione ferroviaria, elementari opposizioni fonetiche, l’antitesi primaria di un SI e un NO: il tutto in grezze tavole d’abete inchiodate con dissimulata perizia di artigiano). Un intero codice grafico della civiltà industriale — scritte pubblicitarie, “luminose”, cifre, segnali marca - tempo ecc. — degrada improvvisamente al prodotto di una bottega da falegname, si sottrae alla propria specifica funzionalità indicativa e viene costretto ad evidenziare la propria ingigantita, piatta e inusuale corporeità di legno. Questa duplice regressione, del segno alla sostanza fisica e dell’industria all’artigianato, non si svolge secondo procedimenti paralleli ma dialetticamente incrociati in un rapporto di contraddizione reciproca, a chiasmo. Per di più, con una serietà cattiva e scanzonata, senza ironia, senza la malizia ludica e lucida del puzzle tilsoniano: un modo, insomma, di guardare il mondo dei segni dal basso, rovesciandolo, materializzandolo, vale a dire scoprendone, con sorpresa anche divertita, la menzogna, l'inusualità.
A questo livello si approfondisce, con un ricorso alla sostanza del contenuto, la critica della lingua, della sua unità falsa o usualità impraticabile. Sul piano di questo suo materialismo pratico Ceroli incontra l’uomo. Dapprima un modello antropologico: Adamo come il David di Michelangelo ( “Adamo ed Eva”), contraddistinto ancora da alcuni segnali vistosi: il sesso a fiamma, la mela in alto, la tazza del cesso accanto nel risvolto della “cassetta”; insomma, l’uomo come ente-di-bisogni: istinto, desiderio, fisiologia; o, se si vuole, come ente generico, perfezione vuota, ritaglio in “cassetta” di una armonia leonardesca (“L’uomo di Leonardo”), non ancora storia. Ma ecco, l’uomo è abbandonato dalla sua “divinità”(“nell'Ultima cena”, dove dodici sagome siedono in fila uguagliate dalla serialità del profilo, il posto del Cristo è vuoto): sale e scende le scale, si agita in una pista da ballo, si colloca nello spaccato di una casa a compartimenti stipati come un armadio della Nevelson, sporge di taglio dalle pareti o pende come un assurdo sportello umano dal soffitto della “Cassa Sistina” (una sintesi di sublimazioni storiche degradate a livello della cassa da imballaggio o del vagone-merci), e infine si allinea nell’anonimia “cinese” di innumerevoli profili senza faccia...
Ceroli sa bene che la riduzione dell’umano alla sintassi del visivo e all’astrazione delle categorie percettive, ripugna al suo materialismo pratico, che preferisce agire sulle sostanze piuttosto che contemplarle nella loro formalità paradigmatica. Non crede che l’uomo possa trovare la propria unità con se stesso nel paradiso, sia pure laico e avverso alle estetiche speculative, dei rapporti formali; anzi, quegli stessi rapporti sottopone a processo critico rivelandone la sostanza ideologica. Insomma, se l’uomo, secondo una corretta accezione materialistica, si autoproduce come comunicazione, a sua riduzione a mera linguisticità è proprio l’indice di una comunicazione bloccata, impraticabile, che costringe l’uomo a ripiegarsi su se stesso, nella falsa coscienza di una unità posseduta solo in idea. Ecco perché Ceroli non nasconde, anzi tende a sottolineare, la natura contraddittoria e doppia del suo uomo di legno, la cui corporeità è nello stesso tempo privazione di corpo, fantasma-goria, idea appunto. Da una parte il corpo scade a materiale, a cosa, ruvida tavola di legno da imballaggio; dall’altra parte il materiale si assottiglia in una bidimensionalità perfettamente sagomata, si disegna in silhouette, si svuota, si falsifica in “spirito”;in altri termini, si fa lingua comune, cioè si ideologizza come forma delle idee coatte, ripetizione...
P. Bonfiglioli