MARIO CEROLI - LA PORTA DELL’INFERNO

La porta dell’inferno

Mario Ceroli

con un testo di Luigi Ficacci

16 dicembre 2023 - 28 febbraio 2024

La mostra, che è cambiata molte volte durante la sua preparazione, e che è destinata a continuare a mutare durante il periodo l'esposizione, si  presenta in questa prima scena, come uno sbarco, dalla nave di Caronte , di figure prodotte dall'artista con scarti negativi di opere precedenti, sullo sfondo di un  grande e breve amore. Le opere , tutte inedite o quasi,   sono state realizzate tra il 1972 ed il 2023.

Artista poliedrico e mercuriale, scultore, scenografo, creatore di oggetti ed ambienti, Mario Ceroli è una delle figure più significative tra quelle emerse nei primi anni '60 dello scorso secolo. Autore del proprio ambiente di vita, Ceroli ha raccolto sin dai primissimi anni i suoi lavori più significativi in un grande studio alle porte di Roma, dove con il tempo ha costituito anche la sua stabile dimora, recentemente aperta al pubblico e visitabile. Le oltre 1700 opere, molte delle quali di grandi dimensioni, sono disposte, in continuo mutamento, riconfigurazione ed accrescimento, in questa sorta di cittadella ideale con tanto di piazza, strade e statue equestri, popolata di angeli, mostri, ombre, pendoli, piramidi, cubi, stacci, animali , macchine ed esseri umani. Ceroli ci invita dunque a varcare la porta dell'inferno, forse per entrarvi o forse per uscirne o magari per farvi ritorno, per tornare altrove, per andare qui.

La sagoma di uomo corre a precipizio, proiettata nella sua traiettoria dinamica. E’ la forma in legno che, nello spazio bianco di vetrina della Galleria, capta l’osservatore e lo immette nel vivo artificioso dell’universo figurale di Mario Ceroli. Così accade a ogni manifestazione della sua opera. La Galleria de’ Foscherari dal 2002 si affaccia su via Castiglione, inserto di bianco modernista nel calore dei mattoni della Bologna di sempre, dalla temperatura di gotico e rinascimento rinnovati alle soglie della temuta età moderna, proprio per voltarvi le spalle. Così fece Bologna lungo i decenni dell’Ottocento e successivi, fino a quell’improvviso slancio progressista a metà Novecento, maturato in clandestinità sotto i colpi dei bombardamenti e poi condotto con equilibrio e determinazione nel dopoguerra, fino all’esplosione dei suoi effetti, ai primi anni Sessanta. Allora Bologna si rivelò improvvisamente come la città più solidamente orientata verso il progresso. La Galleria de’ Foscherari ne conserva ancora la pacata radicalità alternativa, testimone dell’unico folgorante momento di desiderio della Città verso il proprio tempo, quando fu aperta, nella Galleria Cavour, a sua volta inaugurata come un happening urbanistico, un anno dopo l’avvenirista Mottagrill di Cantagallo, a cavaliere della nuova autostrada del Sole, in corso di esecuzione. Allora, dal suo sfiduciato conservatorismo, Bologna risultava proiettata in testa alla modernizzazione del paese. Era il 1962 e la congiuntura eccezionale e inedita.

La vetrina bianca in Castiglione conserva oggi testimonianza e stile e tenuta delle sue origini, in un contesto però divenuto ignaro, alla deriva, nell’inconsapevole urbanistica degli interessi e dei profitti, di cui andare appagati, se non fieri e premiati, com’è tendenza generale delle città; non solo delle italiane. Nella vetrina bianca, sobria nel suo richiamo di fiducia modernista, la sagoma corre, protesa nella propria convinzione, singolarmente irresistibile, euforicamente giovane e divertita. A volersene accorgere, essa demolisce la polvere della città. E’ il ritorno di Ceroli alla Galleria, con la freschezza dell’esordio. Appena varcata la soglia, lo spazio è però sbarrato da due sagome frontali, piatte, sorde; meno che figure, tavole; di una sembianza stilizzata alla più brutale insensibilità; stanno come porte, chiuse, dell’inferno. All’origine, forse qualcosa di crudelmente reale visto dall’artista in qualche costa del nord Africa, fabbricazione maledetta di barche per la peggiore tratta di umani, assemblando legni pesantissimi, portatori indifferenti di probabilità di naufragio e morte. Trasfigurata, secondo il proprio procedimento linguistico, in arte, questa esperienza esistenziale, si conforma in dramma allegorico di verità, entrando direttamente nella dimensione della tragedia umana. E’ il processo artistico più classico della civiltà europea, identico dall’antichità all’attualità. Poi, oltre l’ostacolo terribile dei guardiani che ne precludono l’entrata, si compone e agisce nello spazio un gruppo di sagome, costruite con scarti di tavole profilate per altri lavori. Per questa particolarità tipologica, il funzionamento della loro bidimensionalità risulta animato da un meccanismo di speciale drammaticità. L’insieme che risulta da questa composizione di figure, orientate verso una direzione comune, ha la composta apparenza di una coreografia, dall’effetto di lento, monodico, corale. E’ La barca di Caronte, che occupa col proprio ingombro scenico l’area centrale della Galleria, lasciando spazio alle proprie spalle.

I due ambienti liberi che ne risultano, mostrano opere a parete. Lamiere in fogli contorti, dall’aspetto di superfici cromatiche tormentate. Sono quattro composizioni il cui materiale, la cui idea iconica, proviene dalla struttura della barca, come se questa, dalla propria costruzione malconcia, avesse perso parti; lamiere appunto, che dall’entità di frantume disperso, traggono, così esposte nella loro irregolarità sul muro bianco, prive di qualsiasi corniciatura, l’emergenza di una superlativa espressività pittorica. Come in sviluppo di variazione, circondano e introducono una loro acme, esposta sulla parete conclusiva, dove il detrito laminare, trattato assecondando artisticamente la casualità del suo degrado, si sovrappone ad un campo dipinto in intenso blu oltremare, componendosi con la sua risonanza cromatica e con la sostanza oggettuale di un ramo contorto, come un corallo combusto: scultura naturale dipinta. Questo tema, foglio di lamiera e legno su tavola dipinta a pigmento blu fondo, cioè frantume di natante, corallo e mare, si svolge sulle quattro pareti di una terza stanza, ordinato nella essenziale compostezza di una perfezione di genere pittorico. Ripercorrendo il percorso a ritroso e invertendo così il punto di vista, La Barca di Caronte, vista alle spalle, in una prospettica negazione di prospettiva, evidenzia vieppiù il suo lento muovere, benché sia installazione scultorea materialmente ferma, in direzione della parete opposta, allestita con i fogli della sequenza numerica di Un anno d’amore, opera culmine del processo che dall’entusiasmo euforico di esistenza giungeva alla semplicità gioiosa e giocosa di una ragione universale. Allora, l’agitazione dell’umanità di legno che circonda la barca, disordinata in dissonante recitazione sincronica, anche spinta e forzata nell’esasperazione della propria artificiosità pare venire condotta, perfino liricamente, verso l’orizzonte di felicità della serie di fogli bianchi segnati a carboncino con la numerazione del tempo, speranza bianca di vita migliore.

La logica, che consente a Ceroli, di buon’ora, quasi dai suoi inizi, di esprimere grandi sentimenti e temi e attingere all’universale dei valori massimi, con la freschezza e la levità di una strutturale sensibilità contemporanea e un sontuoso impiego di elementi semplici ed elementari, si basa sul ricorso, spontaneo come per intuizione naturale, a procedimenti intrinsecamente classici. Quei caratteri fondamentali della civiltà latino europea che potevano arrivare all’attualità per la forza di un tramando diffuso di elementi di generale coscienza di cultura. Induttivamente, è l’allegoria, per Ceroli, uno dei modi determinanti e distintivi. Strumento arduo, per la sapienza e la fondatezza che richiede; a rischio, in assenza, di mistificazioni o slittamenti nelle falsità dell’anacronismo e nell’inconsistenza. Ma è strumento che Ceroli possiede con maestria inflessibile, per la forza di necessità che lo muove e la schiettezza dell’approccio. Sono le qualità evidenti dal suo esordio, che da allora costituirono un’acquisizione critica riconosciuta e apparentemente definitiva, ma che invece richiede rinnovate decodificazioni in relazione allo scorrere del tempo e mutare di significati, al fine di realizzarne la rarità, quanto la pertinenza rispetto a inespresse e confuse esigenze del presente. Non sarà la dinamica di una lineare evoluzione stilistica a riuscire a spiegare Ceroli e l’ingegnosa meraviglia che ad ogni manifestazione della sua opera sorprende. Di fatto non una delle forme del suo discorso allegorico odierno è di nuova invenzione; nuove possono essere le variazioni ed esecuzioni materiali, ma se gli elementi formali e i loro concetti generativi sono concepiti sostanzialmente all’origine della propria arte, o comunque raggiunti già agli inizi, come germinazioni raggiunte dall’inizio del discorso artistico, nessuno è predefinito e la necessaria ricorrenza non si configura come ripetizione. Sconosciuto, soprattutto, è il loro spettacolo. Questo momento significante è creato dall’Artista in gran parte nella fase empirica dell’allestimento. Perciò, il più autentico e profondo elemento d’innovazione è per Ceroli la modulazione delle sue figure prime. Personali archetipi, dotati di una garanzia di verità basilare; perciò non soggetti a divergenze; queste, nel caso, si manifesterebbero quali sbandamenti. Lo sviluppo della loro vitalità creativa consiste nella continuità della loro rinascita, quali esiti artistici degli impulsi, sollecitazioni, occasioni, provocazioni del mondo esterno, quelli davvero variabili e imprevedibili all’infinito. Assemblando, variando, reinventando sembianze, forme, dimensioni, apparenze, situazioni di spazio, riponendo l’originalità nei percorsi connettivi, l’allestimento è un atto creativo, nell’estetica di Ceroli, nella fisiologia del suo lavoro. Esso non è mai consistito nella sola presentazione dell’opera, nella sua esposizione definita e chiusa in una propria isolata oggettualità figurale, che Ceroli stigmatizza come “cose da museo” e pertanto allontana dal suo lavoro.

L’arte dunque si manifesta per Ceroli in circostanze determinate, necessarie per la sua realizzazione completa, in un sentimento di complessità universale cui la sua incoercibile impostazione umanistica, classico rinascimentale per forza intrinseca del suo operare e mai per citazione suggestiva, lo costringe. La Galleria è una delle circostanze necessarie richieste dalla sua estetica, perché è il luogo potenziale non della esposizione ma della realizzazione spettacolare dell’arte, laddove lo spettacolo comporta un’intensificazione del guardare e non richiede solo osservatori, ma spettatori, appositamente convenuti, fisicamente quanto emotivamente partecipi. Così la spettacolarità dell’arte assume intrinsecamente per Ceroli i modi della teatralità. Allora, tornare alla Galleria è la circostanza essenziale per il raggiungimento della semplicità elementare, indispensabile per la sua esigenza artistica, la quale, più che professione, più che espressione, è condizione, necessaria e vitale.