Ghirri di musica - 23 ottobre 2008 - 23 gennaio 2009
Luigi Ghirri è stato uno dei maggiori fotografi italiani operanti nel secondo dopoguerra e, come sempre più diffusamente si va riconoscendo anche in campo internazionale, uno dei più sottili ed inventivi interpreti del linguaggio fotografico contemporaneo. Nato a Scandiano, vicino a Reggio Emilia, il 5 gennaio 1943, Ghirri inizia il proprio sodalizio con la fotografia nel 1970, dopo avere accostato e conosciuto, attraverso l'amicizia di alcuni artisti modenesi, l'esperienza dell'arte concettuale ed averne tratto suggerimenti e stimoli per la propria iniziazione. L'orizzonte dell'esperienza fotografica internazionale e l'ammirazione, sempre dichiarata, per il lavoro di autori come Walker Evans, Robert Frank, Lee Freedlander, William Eggleston, costituiscono un ulteriore appoggio per la formazione di una sensibilità e l'elaborazione di un lingaggio che faranno presto di Ghirri un protagonista della nuova scena fotografica: imprevisto e difficile da catalogare entro categorie e definizioni critiche già costituite; ma facile da iscrivere nel registro dei poeti più erratici e mai paghi di esplorare i territori mutevoli della visione e dell'immaginazione.
Compagno e amico di tanti artisti, architetti, registi,scrittori, nell'arco di una vita troppo breve - muore improvvisamente nella sua casa di Roncocesi il 14 febbraio 1992- Ghirri incontra un giorno, per un destino preparato dalla sua smisurata passione per la musica - Bob Dylan il suo idolo incontrastato e, con le sue canzoni, compagno di infinite ore di vita e di lavoro - Lucio Dalla, intrecciando con lui un intenso rapporto di amicizia e una feconda intimità creativa. Dalla lo vuole a più riprese, nell'arco del triennio 1985-1988, testimone e interprete visivo dei suoi viaggi, dei luoghi a lui più cari, dei suoi concerti e del polifonico e cangiante spettacolo offerto dal mondo che li corona. Nasce così un catalogo generoso e intensissimo di scatti, fino ad oggi mai concesso alla curiosità del pubblico e all'interesse degli amatori e, da quel fondo, corposo e segreto, nasce l'idea di questa mostra, intensamente e amorevolmente voluta da Dalla, che, associando nella scelta delle opere, alla confidenza del proprio sguardo, l'esperienza di "curatore" di Nino Castagnoli, ha portato alla confezione di un'antologia emozionante che, attraverso una sessantina di stampe, ci rende testimoni di un dialogo autentico intercorso tra i due artisti e da Ghirri trascritto nelle immagini consegnate all'obiettivo: lungo strade che conducono a luoghi vicini e lontani, lungo itinerari di terra e per rotte di mare.
Una mostra, dunque, che vuole consegnare un nuovo, significativo paragrafo al racconto della storia di un poeta capace di "straniare" la rappresentazione degli oggetti e dei paesaggi più consueti e famigliari fino a renderli, con apparente, totale naturalezza, fonti incontaminate e intangibili di incantamento e iscriversi, con qualche pregio, nella bibliografia sull'autore. A questo scopo, la mostra è accompagnata dall'uscita di un volume, che raccoglie, oltre alle riproduzioni delle opere in esposizione, una successione di testi di Lucio Dalla, Luigi Ghirri, Paola Ghirri, Nino Castagnoli.
Lucio Dalla
Ah se l'anima avesse gli occhi...!
Ah... se l’anima avesse gli occhi...! – si diceva ridendo con Luigi, quando ascoltavamo musica sul vinile o a un concerto, tra uno starnuto, un’extrasistole, fino a un “Anche se muoio adesso sono felice” al concerto di Bob Dylan a Napoli. – Sai quanti problemi in meno avrebbero le “tubature” che portano le lacrime alla fontanella degli occhi!? – Mi diceva.
Questo perché Luigi quando nacque nel ‘43 (il mio stesso anno) nasceva con la musica anche dentro alle ossa. Ogni volta che si sentiva suonare anche solo un campanello o il latrare di un cane nella notte, anche in un mio concerto o di Dylan (che era il suo grande amore) già gli scattava l’idea della foto o l’arrivo di lacrima o un petino di soddisfazione fisica da sigaretta dopo il caffè e via così!
Luigi e Paola, sua moglie, spesso mi seguivano in giro per il mondo e la musica, oltre lo stare bene insieme, era la scusa che ci faceva viaggiare. Parigi una settimana all’Olympia, New York, Boston al Berklee College, Mosca, ecc., sempre con le orecchie aperte e la macchina fotografica in mano e il sudorino nel cuore.
Nella mostra che state vedendo c’è qualche foto delle più di 10.000 che lui ha scattato e pensato nei nostri giri ma soprattutto c’è lui con me e questo un tantino mi commuove, come ogni volta che sul palco sto per cominciare un concerto e non posso non pensare anche a lui. Ciao Luis... bella la vita, eh...
Paola Bergonzoni Ghirri
Se rinasco voglio suonare, cantare e basta
Mi chiedono di raccontare perché c’ero in quei giorni, con loro, con tutti loro. Negli studi di registrazione, nei viaggi in autostrada, ai concerti, in America, al mare, sul mare, nel mare. Tutti loro, visti solo alla televisione, al cinema, le loro voci, dei dischi, delle loro canzoni che, come le fotografie, implacabili, ti fanno ricordare. Ma io non sono più tanto sicura di voler ricordare perché dopo arriva la nostalgia che non serve a niente. E allora per andare un po’ più avanti cerco nella mia testa dei pezzettini di ricordi che per ora frullano come i pop corn dentro alle grandi sfere di plastica trasparente, nei luna park. Ed è lì che ci troviamo Luigi ed io, davanti al baraccone del “Giro della Morte”. Luigi in sella alla sua moto con un casco di cuoio, io in piedi accanto a lui con un costume luccicante le calze a rete smagliate, le piume in testa. Lucio ci sta dicendo che è così che ci ha immaginati da vecchi. È proprio un visionario, penso, ma non lo dico.
Gli anelli, le collane, gli amuleti, i cappelli, i tasti bianchi e neri. La musica.
Ho detto a Lucio che ha delle belle mani e lui non mi crede e non mi crede nemmeno il benzinaio di Bevano in autostrada che vede Lucio, Gianni, Luigi e me e dice – C’è anche la Caselli – ma io non sono mica Caterina Caselli! Ascoltiamo le sue canzoni in macchina trasmesse dalla radio e siamo lì seduti vicino a lui, penso che è una cosa stranissima. Stendiamo tutte le fotografie sulla moquette nera della Fonoprint, le guardiamo insieme e ridiamo soddisfatti perché è stato tutto bello. Di notte, in fila indiana con una pila, in tanti, nella macchia di Tremiti per andare ad ascoltare il canto delle diomedee, un setter irlandese ci segue, sento freddo alle spalle, ho i capelli umidi e un po’ paura.
Luca ed io stiamo lavando con l’acqua dolce la barca, Luigi e Lucio stanno parlando di Adorno e di Savinio, meno male che Giacomo ci sta preparando per cena qualcosa di buono di sicuro.
Stiamo entrando al Mayflower Hotel e sta uscendo Stefania Sandrelli, si abbracciano, lei e lui, e lei è bellissima nella sua camicia candida, e giovane. Siamo nei camerini dell’Olympia. Lucio inizia a cantare 4 marzo e Renzo dice che non può ricordare tutte le volte che l’ha ascoltata. Guardo lo stipite di una porta e penso – chissà se la Piaff ha guardato una volta proprio quel punto lì.
Luigi questa sera ha esagerato. Dylan qua, Dylan là, non ne poteva più nessuno. Anche Gino Castaldo faceva sì sì con la testa ma secondo me aveva già smesso di ascoltarlo da un bel po’.
Adesso guardo fuori dalla finestra. È mezzanotte e un quarto e le strade sono deserte. NYC by night. Un serraglio di tigri sta attraversando la Quinta strada. Forse è uscito dal negozio di giocattoli di Schwarz perché è proprio lì vicino, non ci sarebbe niente di strano; basta guardare la tavoletta della tazza del bagno di questa stanza che è di madreperla.
A Sorrento invece è tutto strano. Nella smisurata hall dell’albergo c’è un pianoforte un barista assonnato, tante poltroncine di velluto rosso sparse come le stelle in cielo.Un albero di Natale gigantesco. E Oliver Reed, rosso anche lui, che viene verso di noi con passi incerti e un bicchiere di Whiskey in mano. Sembra di essere in America.
Tutti nel teatro stanno cercando Lucio. Nessuno sa dov’è e devono iniziare le riprese del video di “Caruso”. Lo trovo. Dorme per terra tra una fila di poltrone e l’altra. Lui si addormenta dappertutto e dorme pochissimo. Guardo per qualche istante il suo respiro regolare poi decido di svegliarlo, ma mi dispiace.
Il mare di Palmarola è fermo e le occhiate nuotano con noi. Luigi non sa nuotare bene, a rana muove appena le braccia, chiude la bocca e gonfia le guance perché crede di galleggiare meglio, ma rimane sempre fermo nello stesso punto. Allora resta sulla barca e ci fa delle fotografie.
Stasera quando Lucio ha cominciato a cantare “Caruso”, nelle prime file c’erano già delle persone che si commuovevano.
Lucio risponde al telefono e cambia la voce per non farsi riconoscere, dall’altra parte qualcuno c’è cascato e ha messo giù subito. Adesso sta guardando Luigi che sistema in silenzio la macchina sul cavalletto. Una piscina li divide. Vedo che Luigi sta cercando il riflesso speculare di Lucio nell’acqua, credo che non lo trovi. Si guardano, stanno fumando poi si mettono a parlare contemporaneamente.
Siamo in chiesa a Roncocesi, Lucio tiene Adele in braccio. Anche Luigi è piccolo come loro. Don Gianfranco ci parla di Dio e del diavolo. Io non so dire se Dio c’entri con noi, ma sono sicurissima che il diavolo non c’entrerà mai.
Gli leggo il testo al telefono e Lucio mi dice di aggiungere adesso – siamo dei fiocchi d’avena in un vaso di vetro e tra poco saremo anche pop corn.
Roncocesi, 14 settembre 2008













Luigi Ghirri
Conversazione con Lucio Dalla
Luigi Ghirri. Ho sempre pensato che molto del lavoro svolto dai fotografi italiani avesse una sottile coin- cidenza con le intuizioni di alcuni cantautori italiani, non so, forse una adesione o un interesse per un mondo o paesaggio marginale, o per raccontare certe microstorie, e trasformarle in qualcosa che riguarda- va tutti, cosa ne pensi tu?
Lucio Dalla. Io credo che questo riguardi principalmente il tuo lavoro, quello che dici non è applicabile a molti tuoi colleghi, anche se non ho una conoscenza approfondita, ma per quello che ho visto mi sembra che sia così. Perché al di là di motivi banali, come la professionalità, il modo di inquadrare il soggetto, delle tue fotografie quello che rimane, e che colpisce, è che diventa un prodotto fruibile; in questo senso mi sento vicino al tuo lavoro, perché anch’io sono vicino al pubblico che mi ascolta, come tu sei vicino al pubblico che mi ascolta, come tu sei vicino al pubblico che guarda le fotografie. Inoltre c’è un altro valore, e questo può valere per me, io ad esempio mi ricordo tutte le tue fotografie che ho visto: mi ricordo quella delle due palme con la panchina, quella della cattedrale di Trani e il mare, i due che vanno verso la montagna, e potrei continuare, elencarle tutte. Le tue fotografie hanno qualcosa che me le fa ricordare, io come altri vengo colpito dal guardarle, forse anche perché alla fine mi sembrano, come dire, delle fotografie musicate.
L.G. Cosa intendi con questo termine musicate, che tra l’altro mi piace molto, si sente che amo la musica, che hanno una loro musicalità o gradevolezza?
L.D. Sì, anche questo, ma con musicate intendo dire che hanno un loro suono interno, che hanno un inciso, un ritornello, si sente che sono costruite, che hanno un mixaggio. L’insieme di queste cose, alla fine colpisce il linguaggio- definitivo, che è di varia funzione, ad esempio sembra che non vi sia niente da scoprire, o che il centro dell’immagine non sia mai visivo o visibile, ma sempre un po’ più in profondità, oppure sembra che invece della luce, ci sia come un raggio che illumina le cose e che viene filtrato attraverso di te e la macchina fotografica.
L.G. In un’intervista, qualche tempo fa, dicevo che accettavi di farti fotografare volentieri da me, perché alla fine eravamo entrambi imbarazzati.
L.D. Il mio imbarazzo nasce anche da un po’ di stanchezza, che provo davanti all’obiettivo. Sono anni che non voglio e detesto farmi fotografare, ma non per odio nei confronti del fotografo, ma perché è come un gioco che mi ha un po’ annoiato. Con te, mi diverto ancora, mi piace ad esempio osservare il tuo imbarazzo nel prendere le fotografie, oppure, ti ho osservato molte volte come prendi le fotografie: sistemi la macchina sul cavalletto, esegui tutte le operazioni, e poi al momento dello scatto ti allontani e sembra che tu osservi il mondo con già dentro la fotografia e tu che stai fotogra- fando. Sembra quasi una casualità preordinata, e questo mi diverte. Inoltre in questo momento preferisco fare io stesso le fotografie, e come tu ben sai, è molto più divertente fare le fotografie, che farsi fotografare, inoltre questo ti dà anche la consapevolezza che dietro ogni fotografia c’è una sottile, lieve, forma di violenza e di prevaricazione.
L.G. Un giorno Borges scrisse che alla fine scavando in profondità nella nostra memoria ritroviamo qual- che canzone dimenticata e delle fotografie ingiallite, cosa ne pensi?
L.D. La frase la trovo bellissima, ma mi sembra che valga solo per noi latini, altre culture, come quella anglosasso- ne hanno altri riferimenti quotidiani o piccole litologie. La nostra emozionalità latina passa invece di più attraverso queste cose, fanno parte della nostra quotidianità. C’è però una sottolineatura malinconica, che mi appartiene, non penso mai ad una canzone, per esempio, in termini nostalgici, mi sembra che la canzone o una fotografia siano parte della nostra quotidianità e quindi del presente, significano tante cose, fanno parte della nostra vita, a volte mi sembra possano avere la leggerezza di una foglia.