LOTTA - CLAIRE FONTAINE | 18 GENNAIO - 1 MAGGIO 2025

LOTTA

CLAIRE FONTAINE

18 gennaio - 1 maggio 2025


A proposito di arte, lotta e potere di Fabiola Naldi

Claire Fontaine nasce come uno spazio condiviso cui si è deciso di dare il nome di una persona di nazionalità francese e di sesso femminile. Essere donna ed essere autoctona nel mondo dell’arte possono essere degli handicap e ci sembrava interessante partire da questa situazione. La decisione è stata proprio creare ed alimentare uno spazio di de-soggettivazione, in cui le opere che prendevano forma non sarebbero state il risultato di una o più soggettività addizionate, perché altrimenti a quel punto avremmo potuto firmare con i nostri nomi, ma sarebbero state qualcosa che nessuno dei componenti di Claire Fontaine avrebbe creato se questo spazio non fosse esistito”[1].

 

Claire Fontaine è un'entità concettuale poliedrica, dichiaratamente donna che, nell’affermare la propria esistenza e la propria condizione artistica, evidenzia confini e pregiudizi culturali della nostra società. Per questo scegliere di far parlare il collettivo è prima di tutto uno statement anche da parte dell’autrice di questo testo che, da sempre, ritiene fondamentale sviluppare una voce multipla, non normata e in continuo cambiamento. Costruire uno spazio espositivo che incorpori tensioni latenti deve necessariamente partire dalla constatazione che i rapporti di potere, di qualsiasi tipo, sono costanti, onnipresenti e imprescindibili. Un aspetto di questa inevitabile trazione che può essere messo in discussione e, allo stesso tempo, monitorato riguarda le logiche di dominazione, attualmente utilizzate in modo ossessivo.

Un’urgenza concettuale e figurativa che chiede di riavvolgere il filo della storia dell’arte del Novecento fino alle pratiche di ready made (sicuramente di matrice duchampiana, ma espanse a una coralità di processi tuttora attivi) e caricarle di uno nuovo statuto estetico che si definisce attraverso la destituzione dell’oggetto o dell’immagine originale al fine di “cambiare” sia il suo significato simbolico sia il suo valore funzionale, economico, culturale.

Alimentare questa pratica non nuova, ma trattata diversamente, permette a Claire Fontaine di muoversi liberamente tra elementi prelevati da immaginari cari alla cultura visiva (e non solo). Immagini e icone che improvvisamente si fanno diverse, “nuovamente nuove” potremmo dire, investite di una rinnovata manipolazione concettuale che mostra la realtà attraverso un filtro di osservazione e di interpretazione inaspettato. Procedere in questo modo significa non operare all’interno di un piano di riattivazione della storia (anche dell’arte) in termini nostalgici, ma di “eccitare” e sollecitare nel nostro vissuto attuale una percezione critica della cultura, dei diritti, dei generi (non solo sessuali).

Quest’ultimo progetto affronta la tensione tra rappresentazione/presentazione e riproduzione, rapporto sviluppato in buona parte del Novecento, tenendo in considerazione la lunga linea di demarcazione fra ripetizione e differenza cara a molta della filosofia del secondo dopoguerra[2].

Il concetto di citazione, non solo connesso alla riproduzione intesa come copia, significa scegliere, prelevare, decontestualizzare e poi ricollocare in un ambiente concettuale apparentemente distante dal suo contesto iniziale. Tutto ciò che possiamo considerare com processo lineare manca in funzione di un rapporto del tutto rinnovato  con uno spazio e un  tempo diverso. Gilles Deleuze definisce questo momento un connubio fra “testo citato” e “testo citante” che nel caso di Claire Fontaine diviene nuovo discorso artistico proprio in relazione al nuovo rapporto instaurato. A questa prima riflessione è importante affiancare anche il concetto di autorialità e di proprietà oggi spesso rilanciato in alcune speculazioni culturali e a cui il collettivo tenta di sottrarsi.

Per questo torna attuale il celebre saggio di Michel Foucault Che cos’è un autore, restituzione della conferenza tenuta al Collège de France nel 1969[3] in risposta a La morte dell’autore[4] di Roland Barthes del 1967. Nel testo di Foucault il ruolo dell’autore è oramai destituito, quasi scomparso, a favore di un nuovo spazio astratto in cui la “funzione - autore” è la conseguenza di ciò che attraversa la società in un momento preciso: ecco quindi che appaiono un flusso di costanti e variabili che si modificano a favore del contesto. Questi elementi accrescono il decentramento dell’autore come soggetto unico e lo orientano verso una molteplicità di stratificazioni interpretative.

Sempre Claire Fontaine afferma “[…] Crediamo nelle persone mancanti, pensiamo che possano materializzarsi in qualsiasi momento e che tu possa essere uno di loro. Sappiamo che lo straniero, il passante darà significato alle nostre opere d'arte, grazie alla grazia della sua curiosità e apertura, creando lo spazio in cui le cose diventano possibili. La tua intelligenza emotiva e politica è il mondo che possiamo condividere. Tutto il resto è solitudine”[5].

L’urgenza di rilanciare l’opera in una dimensione altra dall’autrice stessa fa apparire altrettanto attuale anche il celebre saggio Opera Aperta[6] del 1962 di Umberto Eco: in questo caso il saggio di Eco torna a essere estremamente prezioso non tanto nell’indagine sul ruolo del fruitore che sappiamo bene è oramai, da decenni, libero di impossessarsi del significato, seppur personale, dell’opera, quanto nella riflessione sull’immaterialità inevitabile del lavoro che si appropria di uno spazio invisibile, apparentemente vuoto, in grado di partecipare alla codifica dei possibili significati. Le opere di Claire Fontaine vanno in questa direzione, dichiarando un attivismo implicito, sia nella riappropriazione della storia, sia nella riattivazione della pratica estetica. Quello stesso spazio dialogico e interstestuale presente nella riflessione di Eco è per Claire Fontaine la responsabilità di affermare l’ambiguità, il decentramento della pratica che si autentica in funzione di questo spiazzamento. Aprendo, allargando e espandendo sempre di più le possibilità segniche dell’opera, Claire Fontaine analizza e prova a trasformare le nozioni occidentali di identità, individualità, valore e “verità” elaborando stereotipi e immagini, simboli di una tradizione culturale oramai al tramonto. L’intento resta forte attorno la scelta chiara di occultare, veicolare e svelare il flusso incessante di conflitti, violenze, abusi, pregiudizi, dichiarati o meno, del mondo in cui viviamo.

Che LOTTA sia allora, tramite una moltitudine di strumenti, di dispositivi, di materiali, di riferimenti che, emergendo dalla memoria presente o passata, non solo della storia dell’arte, arrivano nuovamente a noi con la voglia di far luce piena sui sistemi generativi come su coloro che tollerano manipolazioni e prevaricazioni. LOTTA si sofferma, in questo caso, sulla pratica stessa della composizione e della sua alterazione visiva che fa del vandalismo il superamento del semplice atto di danneggiare. L’oggetto danneggiato viene qui proposto come simbolo di significato più profondo, distante dalla più scontata riflessione del suo stato ideale di integrità e originalità. La pratica del vandalismo viene affrontata come un plus valore: l’opera imbrattata è una riproduzione e l’atto vandalico va anche contro le riproduzioni realizzate da pittori cinesi specializzati in questo tipo di copie. L’oggettificazione del corpo femminile nell’arte già ampiamente analizzata (pensiamo ai tre capolavori di Éduard Manet Le déjeuner sur l’herbe, La Grande Odalisque e Olympia invasi in modo diverso dal collettivo) arriva in questa occasione a proporre il celebre quadro di Gustave Courbet L’ Origine du Monde aggredito da uno slancio vandalico che diviene esso stesso pratica artistica. L’apparente assenza dell’origine del mondo (nonostante la memoria collettiva sia in grado di “vederla” come nell’opera di Courbet) pone un’ulteriore riflessione non solo sulla pratica della distruzione apparente, ma anche sull’idea di “cura” e di “valore”.

L’origine du monde è vittima di una costruzione sessuale, simbolica, culturale, economica, perpetuata dall’anno della sua realizzazione (1866) fino ad oggi, passando per il suo ultimo proprietario Jacques Lacan[7] e giungendo all’acquisizione pubblica del 1995.

I codici figurativi che appartengono alla nostra memoria artistica occidentale hanno perpetrato per decenni modelli culturali deviati e devianti, pronti a sussurrare pulsioni e desideri di evidente matrice maschilista e patriarcale e ad alimentare un archetipo di desiderio virile e autoritario. La copia, qui fedelmente riprodotta a mano, è sporcata con il tanto odiato intervento della bomboletta spray che è sinonimo di degrado urbano, sporco, cattivo, aggressivo e privo di decoro. Claire Fontaine ha considerato l'oggetto danneggiato come qualcosa di più significativo rispetto all'oggetto nel suo normale stato di integrità. Il vandalismo è stato affrontato dall'artista come un'aggiunta di potere piuttosto che come la distruzione di uno stato ideale. Attivare questo tipo di vandalismo (seppur stiamo parlando di una copia identica all’originale) caratterizza almeno nel corso del Novecento il più acceso dibattito sul valore dell’arte, il suo significato e il ruolo che essa gioca nella società. In questo contesto, il vandalismo diventa anche un modo per rinegoziare il significato delle opere. Le azioni di vandalismo non sempre mirano a distruggere, ma talvolta si riappropriano di un'opera per darle nuova vita, contribuendo a un dialogo più ampio sulla sua interpretazione[8].

Attraverso i gesti di distruzione e riappropriazione, si manifesta l'evoluzione del concetto di arte e della sua funzione nella società. Il dialogo tra l'arte e il vandalismo continua a essere di grande rilevanza, poiché invita a interrogarsi su cosa significhi veramente "creare" e "distruggere" nell'ambito del mondo artistico. In questo secolo di conflitti e cambiamenti, il vandalismo si rivela non solo un atto di negazione, ma anche una potente forma di espressione culturale e sociale. Si tratta di operare continuamente nei confronti di una dichiarazione di intenti, di una rappresaglia verso un potere che non si esercita più solo sulle merci bensì sulle vite di tutti noi. In un luogo preciso che è lo spazio della produzione artistica si parla di identità, di esperienza, di relazioni sociali ed economiche, di sensualità e sessualità: è uno spazio libero, pronto a essere “invaso” non dalla pubblicità, ma da un intervento cosciente nel quale forze visive, slogan e pensieri si sovrappongono al reale con un chiaro valore politico.

Il collettivo non può esimersi dal dichiararsi in opposizione a un capitalismo visivo e sociale, proprio attraverso la riproduzione di opere, in cui il concetto stesso di manufatto trascende perfino il surrogato. Cosa resta allora? il linguaggio, sia visivo sia testuale, che non tralascia nulla, che non esclude nessun tipo di ri-mediazione della storia dell’arte come della cultura di massa. Ciò che emerge è l’urgenza di concretizzare le criticità del nostro tempo per tentare, attraverso il linguaggio artistico, di “eccitare” una visione più radicale del presente, di una società avulsa al concetto di reazione al suo stesso imperante sistema. La de oggettivazione del riferimento visivo si trasforma in una rinnovata forma di critica verso il concetto di produzione e di ripetizione di tanti artefatti che si fanno attraenti, desiderabili apparendo come nuovi.[9]


Da quello stesso desiderio si procede per dirottare i contenuti, usando la pittura, il video, la fotografia, il disegno, l’installazione. Claire Fontaine giunge a descrivere l’essenza del processo artistico come “espropriazione”, una proposta non solo visiva, per investire di valore d’uso esistenziale gli oggetti e le opere preesistenti. Come spesso Claire Fontaine ha dichiarato nelle interviste, siamo nel pieno di una crisi dell’individualità, intesa come incapacità singola e collettiva di dare senso all’esistenza nelle attuali circostanze politiche, economiche, di repressione e di sorveglianza sistematica. In questo spazio d’azione troviamo anche due nuovi light box, appartenenti al ciclo degli emoji (e prelevate dall’universo visivo digitale), rappresentanti un’ostrica e un uovo. The World’s Mine Oyster e Egg si comportano come sineddoche nell’istante in cui si trovano a rappresentare una parte per il tutto, ovvero l’organo riproduttivo femminile e le sue molteplici variabili interpretative. Pensiamo alla morfologia dell’ostrica in natura e alla sua rappresentazione iconografica occidentale: il mollusco è stato spesso utilizzato come simbolo di femminilità e fertilità, evocando l'immagine di organi femminili e proponendo connessioni profonde con la sessualità e la maternità.[10] La forma conchiglia dell'ostrica è stata interpretata nel corso della storia come un parallelismo con la vulva, richiamando l’idea dell’utero e della riproduzione. Questa associazione iconografica ha trovato terreno fertile in diverse tradizioni culturali e artistiche (pensiamo al Rinascimento), dove l'ostrica emerge come simbolo di vita, di potenza della femminilità, di giovinezza, di rinascita e di trasformazione. Allo stesso tempo emerge l’implicazione critica di tale iconografia che conduce la complessità della femminilità a mere rappresentazioni corporee. Ancora, la riflessione torna alla percezione dell’identità femminile da parte della cultura patriarcale in cui l’atto della nascita riguarda spesso solo l’aspetto funzionale ovvero la nascita biologica dimenticando o negando le implicazioni simboliche, spirituali, “magiche”[11]. Lo stesso vale per l'iconografia dell’uovo che assume significati variabili legati alla vita, alla morte, alla fertilità e alla rinascita. La sua forma ovale rappresenta la continuità e la ciclicità della vita e sappiamo che in molte culture l’uovo è associato al concetto di nascita (origine dell’universo) o di rinascita (come nella tradizione cristiana): pensiamo, ad esempio, ad alcuni miti indù in cui si crede che l'universo sia nato da un uovo cosmico conosciuto come Hiranyagarbha. Allo stesso modo, nella mitologia egizia, si racconta che l'uovo cosmico è emerso dalle acque primordiali. Queste forme, prelevate dalla comunicazione virtuale, sono testimoni oculari dell’espansione immateriale dei nostri corpi, dei nostri desideri, delle nostre frustrazioni. La libertà con cui Claire Fontaine si appropria dei molti immaginari culturali è immanente, istantanea, presente al nostro presente e alle esperienze che accadono attorno a questo habitus[12] apparentemente impalpabile. Questo implica utilizzare per esempio delle forme “anonime” come il neon, le lettere in LED, la citazione di forme e di frasi esistenti, la riproduzione pittorica e fotografica, senza preoccuparsi di essere “originali”, ma insistendo piuttosto sulla presentazione di un’intensità legata al vissuto del momento storico attuale e alla sensibilità che questo crea. Procedere in questo modo, trasformando il processo, aggiunge valore alla creazione che è, non dimentichiamolo, un concetto superato, normato: la pratica si fa più consapevole, matura, impegnata dichiarandosi politica come atto di esistenza. Vandalizzare, cancellare, copiare, ripetere, utilizzando l’immagine come la parola, sono dichiarazioni di autenticità, di presa di coscienza e di responsabilità del nostro essere nella società, in questa società che manipola e forza ogni azione e ogni pensiero.

“Il nostro lavoro è una sessione dello spirito, una risata amara, uno scavo ansioso (come un cane scava per trovare un osso, come un animale fa la sua tana…) viene dal desiderio di essere vivi al di fuori della gabbia delle classi sociali, al di fuori dell'ordine della repressione, al di fuori della crudeltà del patriarcato, del suo disprezzo cieco, delle sue armi letali e dei suoi veleni.  Combatti questa tristezza, resta”[13].